di Elisa Mazzieri
(da The clash – Lo scontro. Storie di lotte e di conflitti, 2010)
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, 25 novembre 2021
Ancora cinquecento metri, quattrocento, duecento ed eccolo lì, finalmente, il portone. Al riparo dalla pioggia Milena comincia a frugare nella borsa, come al solito alla ricerca delle chiavi. Dentro sempre troppe cose. Un dolore acuto tra il pollice e l’indice come di taglio. La carta, sempre troppa carta. E ancora, plastica, lana, metallo, altro metallo, ecco le chiavi, incastrate nell’anello. Le tira fuori dalla borsa trascinandosi dietro anche la sciarpa e le caramelle balsamiche per la gola. La serratura, come sempre, ci mette un po’ ad arrendersi, un giorno di questi ci spezzerà dentro una chiave, è sicuro. Speriamo non oggi.
Apre la porta e la trova lì che dorme, sul divano, con ancora gli stivali. Sophia, il volto scosso da impercettibili tremiti.
«Sophia? Ehi, ci sei? Vuoi mangiare qualcosa?». Sophia si tira la coperta fin sopra la testa. Quand’è così è inutile insistere, Milena lo sa. Si toglie il cappotto, le toglie gli stivali e si lascia andare sul divano accanto a lei.
È freddo, fuori. Lo sguardo percorre velocemente il leggero disordine della stanza. Sul tavolino basso di fronte al divano, c’è ancora spazio per appoggiare due bicchieri. Milena sorseggia il suo vino, tenendo il bicchiere stretto tra le mani intirizzite. Sophia si tira su con i gomiti, fa un sorso dal suo ad occhi quasi chiusi e si rimette a dormire. Il sonno deve essere contagioso. Qualche minuto e anche Milena è sdraiata accanto a Sophia. Lievemente, facendo attenzione a non scoprirla, a non svegliarla. Cinque minuti soltanto, giusto il tempo di riscaldarsi un po’, la cena è già sul fuoco. I capelli di Sophia sanno di buono, borotalco e cannella, deve averli lavati da poco, si alzano e si abbassano al ritmo del respiro facendole il solletico sul collo, ma è gradevole. Lentamente Milena si sente scivolare. La stanchezza di una settimana intensa le si rovescia sopra a ondate, trascinandola. Cinque minuti ancora e poi si alzerà, almeno a spegnere il fornello. O forse andrà a finire che si addormenterà e brucerà tutto un’altra volta e alla fine ordineranno una pizza, o dal cinese. Ma almeno il vino è buono e confortante e la stanchezza non sente ragioni.
Guarda Sophia dormire e ci pensa: sono passati più di dieci anni e a volte ancora non le sembra reale. Il difficile è abituarsi alla tregua, alla vita normale, a vedere Sophia che dorme tranquilla. Il difficile è una giornata come oggi, incolonnata nel traffico come sempre al ritorno da Fiumicino.
Bloccata lì, davanti a quegli striscioni, la macchina come una gabbia. «Sei innocente». Pochi metri più in là: «Chi parla male di te è perché non ti conosce». E uno, il peggiore di tutti: «Davide, non importa ciò che dice la gente… sei innocente. Gli amici e le amiche».
Ferma, il suono nervoso di clacson dietro di lei che la scuote. «Le amiche», si sente sussurrare. Occhi sgranati, sigaretta lentamente a diventare un cilindro di cenere.
Quel capodanno lo hanno passato in un agriturismo in Toscana, lei e Sophia. Non c’erano che altre due coppie e una famiglia. Fuori la neve, a pochi chilometri le terme. Nel salone dove veniva servita la colazione c’era un televisore, fortunatamente nessuno degli altri ospiti aveva sentito il desiderio di accenderlo. Loro a casa non ce l’hanno la tv e non la guardano in giro. La notizia dello stupro consumato alla Fiera di Roma la notte di capodanno le aveva raggiunte pochi giorni dopo. Non avevano preso neanche il portatile per quella breve vacanza, avevano deciso di passare cinque giorni fuori dal mondo, loro due soltanto, per festeggiare. E ce n’erano di cose da festeggiare. Dopo quattro anni di contratti a progetto, a tempo determinato, da interinale, da consulente esterna, Milena aveva messo una firma a tempo indeterminato e avevano potuto finalmente chiedere un mutuo.
L’anno precedente era stato faticoso ma bello. Avevano girato in lungo e in largo tutta la città e non solo, alla ricerca di un posto adatto a ospitare la loro casa e lo studio di restauro di Sophia. Alla fine avevano trovato un capannone che perdeva pioggia dal soffitto e aveva sul retro un bel giardino d’amianto, ma tant’era, se ne erano innamorate come si erano innamorate l’una dell’altra dieci anni prima. Il capannone lo avevano comprato e pagato in contanti per due soldi.
«Meglio così», diceva Sophia. «Agli stucchi e alla pittura ci penso io».
Il prestito della banca lo avrebbero usato per tutto il resto. E tutto il resto era tantissimo. Luce, acqua, gas, tetto. Ci avevano lavorato per quasi sei mesi. Sophia a tempo pieno, Milena nel dopolavoro, come diceva lei. Poco alla volta le bacinelle stile impluvium erano diminuite.
«Peccato, però», rideva Sophia, «qualcuna potevamo lasciarla, mica male come idea la vasca da bagno in salone fa molto stile… impero romano?».
Ed erano comparse scatole, scatoloni, travi, mattoni, scalpelli e legni che poi si erano trasformati in armadi, librerie, tavoli e mensole. Qualcosa riuscita meglio di altre. La notte scricchiolii improvvisi rivelavano qualche magagna nell’assetto dell’armadio.
«Purché non ci crolli addosso!».
«Ma no Sophia, ti sembra possibile che crolli?».
Chissà, però intanto il letto lo avevano spostato.
«Abbiamo un open space apposta, no?».
«Apposta per evitare che ci crolli l’armadio addosso?».
«Più o meno».
Ridevano. Ridevano spesso. Milena felice di vedere Sophia felice, dormire serena accanto a lei una notte intera. Senza incubi né grida.
«Credi che dormirò sempre così tanto?», le aveva chiesto Sophia un giorno, poco meno di dieci anni prima.
«Ma no, ti pare. Ora dormi così perché devi recuperare. Vedrai che poi riprenderai un ritmo normale».
«Ah sì? E che cos’è normale?»
Bella domanda. E infatti Milena era rimasta imbambolata a fissarla senza una bella risposta.
Si erano viste per la prima volta un giorno, in un corridoio gremito di tribunale. Milena era lì per l’ennesima volta a causa di un incidente d’auto di qualche anno prima, niente di grave per lei, ma la macchina distrutta. Sophia, ancora non lo sapeva, per la prima di una penosa serie di interrogazioni preliminari in un processo contro il suo ex datore di lavoro. Lei era la parte lesa.
«Non ce la faccio più! Non ha senso. Mi sono infilata in una cosa senza senso!», aveva detto più di una volta Sophia, pallida di freddo e stanchezza.
«Resisti!», le avevano risposto le altre.
I mesi prima del processo erano stati mesi di preparazione a quello che sarebbe accaduto. Erano in molte. Si vedevano sempre a casa di Laura il mercoledì, ognuna interpretava un ruolo. Cristina era l’avvocato del bastardo. Milena nessun ruolo, era troppo coinvolta, fumava una sigaretta dietro l’altra, spesso in balcone, al freddo. La casa di Laura era minuscola e ci vivevano in tre ma era un luogo sicuro e senza dirselo avevano cominciato a vedersi lì regolarmente, ognuna portando qualcuna e trovandosi sempre più strette, sedute sui braccioli del divano o a terra.
Un giorno erano venute due donne di un’associazione e avevano messo a disposizione uno spazio. Così gli incontri del mercoledì si erano spostati al giovedì ed erano diventati riunioni. E la domenica, di mattina, si vedevano ancora, in poche, a casa di Laura o in associazione, per prepararsi al processo. Molte di loro lavoravano e studiavano, alcune erano fuori sede, c’era chi si dedicava alla ricerca ma non riusciva a prendere assegni per due anni consecutivi e negli intervalli faceva di tutto. Alcune condividevano la casa. Milena e Sophia si ritrovarono a vivere insieme quasi subito. La coinquilina di Milena si era trasferita per un master in Germania. Sophia non aveva più un posto dove stare.
«Sono stanca, stanca, stanca…», le aveva detto una di quelle domeniche dopo aver visto Processo per stupro, in un momento di pausa prima di riprendere la simulazione. Cristina la incalzava con le stesse domande degli avvocati del documentario. Non le dava tregua.
«Sono passati vent’anni!», aveva sbottato Milena a un certo punto, «sarà diverso!».
Lo sguardo vacuo e lucido di Sophia era lo stesso della ragazza nel film e Milena non resisteva a vederla così. Più di tutto le facevano paura quello sguardo svuotato e il pallore di Sophia e il suo senso di freddo perenne nonostante a casa loro ci fossero fissi ventotto gradi in inverno. Milena andava in giro per casa in maglietta, Sophia con due maglioni.
«Mangia qualcosa, ti prego, non ti passerà mai quel freddo se non ti nutri un po’».
Non ce la faceva a nutrirsi, Sophia. Aveva sempre la nausea e le occhiaie.
«Non sarà diverso per niente! Vatti a fumare una sigaretta che è meglio», le aveva risposto Cristina, secca.
«È una tortura! Basta!», era l’ultima cosa che Milena aveva sentito dire a Sophia prima di uscire da casa di Laura per scendere al parco a fumare più di una sigaretta. Qualche minuto dopo l’aveva raggiunta Daniela. Sedute una accanto all’altra sulla panchina, zitte.
«Che ti succede? Lo sai come funziona», aveva rotto Daniela.
«Sì, lo so, certo. Mi sento… impotente».
«Capisco. Ma devi essere forte ora. Cristina ha ragione, non sarà diverso. Siamo state in aula tante volte e le domande sono sempre le stesse. Forse anche peggio. Le chiederanno perché ha accettato di uscire con lui, perché ci è uscita, no? E più di una volta. Le chiederanno perché è uscita con un uomo sposato, un rispettabile imprenditore, e perché è andata a lavorare a casa sua quando sapeva che sarebbero stati soli, lo sapeva, no, che la moglie sarebbe andata in vacanza con i bambini? E che cosa si aspettava andando a casa sua, di sera, da sola e così poco vestita!».
«Ma era luglio! A Roma ci sono quasi quaranta gradi a luglio!».
«Non devi dirlo a me. Te l’ho detto, Milena, devi cercare di essere pronta. Noi ci saremo tutte ma è di te che ha più bisogno».
«In che senso?».
«Ma dai. Si capisce quello che c’è tra di voi».
«Non c’è niente».
Daniela non aveva insistito. Milena si era persa nel pensiero di Sophia. Sophia che si sveglia urlando di notte e non si addormenta più. Sophia che ha troppa nausea per mangiare e troppo freddo per uscire e che sobbalza se appena la sfiori.
Impossibile pensare che ci fosse qualcosa tra loro. Difficile anche solo pensare a quando Sophia avrebbe permesso nuovamente ad un corpo di avvicinarsi al suo.
«Rientriamo?». Daniela interrompe il ciclo dei suoi pensieri.
«Sì».
Si allontanano insieme. Di fronte a loro due bambine si dondolano ridendo sulle altalene. Milena ripensa a una frase di Sophia di qualche giorno prima.
«A volte mi viene voglia di impiccarmi». Guardando le bambine volare nel cielo e nel sole le viene in mente un’immagine lontana. Le vergini dell’Attica che si impiccarono in massa per sfuggire a un ratto o una violenza maschile e le altre, quelle che si impiccavano ad Atene dopo il suicidio di Erigone. Erigone, Aletis, la “vagabonda” spinta sull’altalena da un satiro.
E Daniela aveva ragione, purtroppo. La prima udienza era stata devastante. Appena rientrate a casa Sophia si era lasciata andare sul divano con gli occhi rossi, le dita a torturare le dita. Milena le aveva preso le mani ma non era riuscita a dirle niente.
«Mia sorella! Ti rendi conto? La mia famiglia…», la voce rotta da rabbia e sconforto. «È come se mi avesse accusata, capisci? Nemmeno una parola fuori dall’aula, niente! Non è neanche venuta a salutarmi!»
«Magari non poteva…»
«Cosa? Ma che dici, ma da che parte stai?»
«Sophia, non è una guerra, è che…»
«Ah no? Come no? E tu che ne sai! Io non ne posso più, io è una vita che sono in guerra, sono stanca, stanca, stanca!».
Si erano preparate ma nessuna si aspettava la dichiarazione di Irina, la sorella di Sophia. Marco, il marito di Irina, aveva presentato un giorno a Sophia il suo capo. Il rispettabile imprenditore per il quale lavorava, al nero, da anni. Si erano incontrati casualmente poco prima dell’estate: Sophia a passeggiare con Irina e Marco, lui con la moglie.
Sophia lo aveva incrociato pochi giorni dopo, a una mostra. Era venuta fuori una possibilità di lavoro interessante: un dipinto del Settecento da restaurare e una parete da affrescare. Era andata a casa dell’uomo con il suo book di lavori e lui ne era rimasto entusiasta. Si erano visti ancora un paio di volte per concordare il tutto e nel giro di poco Sophia aveva iniziato ad andare regolarmente a casa sua. Arrivava sempre intorno alle cinque del pomeriggio, dopo aver seguito le ultime lezioni della scuola prima dell’esame finale. Smetteva di lavorare solo quando calava la luce del sole. Qualche volta accettava gli inviti a cena fuori di lui. Una sera restarono a casa. Sophia aveva cucinato un piatto tipico della sua infanzia e l’uomo aveva stappato una bottiglia.
«E che significa?», aveva risposto Sophia mal trattenendosi, all’avvocato che insisteva ammiccante sui particolari. Significava che avrebbe dovuto immaginare che quell’invito era un preludio, rispondeva l’avvocato e che era una calunniatrice che cercava di infangare questo uomo esemplare, questo padre di famiglia con il quale aveva avuto senza dubbio un rapporto consensuale. Che non c’era da scherzare su quest’uomo, ricco, affermato e, diciamocelo pure, bello. Uno stimato professionista che avrebbe potuto avere tutte le amanti che voleva, una fila a quanto pare e che non aveva certo bisogno di violentare una «come lei». E che sì, qualche livido ci sarà pure stato, ma che sarà mai? Si sa, certi giochetti lasciano il segno specialmente su una carnagione così chiara. Una carnagione dell’est.
A questo nessuna era pronta, ma meno di tutte Sophia. Non era preparata a sentirsi accusata di voler incastrare un rispettabile cittadino che paga le tasse, regolarmente, che ha una famiglia da rotocalco, che è ben voluto da tutti i suoi dipendenti e a confermare questo, Marco e Irina. L’uno a elogiare la disponibilità del suo capo, la sua schietta gaiezza, il suo pranzo diviso con gli operai «come uno di loro», l’altra a rincarare la dose col suo consenso.
«È la cosa che mi ha fatto più male» ripeteva Sophia, sguardo attonito.
Milena non riusciva a dire nulla. Avrebbe voluto dirle che forse sua sorella era stata costretta a dire quello che aveva detto. Che aveva due bambini, che non riusciva a trovare che lavori saltuari e suo marito, l’unico stipendio certo, lo portava a casa lavorando al nero per quell’uomo. Avrebbe voluto dirle questo ma non ne era più troppo convinta.
Il dubbio per la scelta che ognuna avrebbe sempre potuto compiere, scavava come un tarlo. Avrebbe voluto dirle che Irina era il frutto di una cultura marcia e non era dividendosi che ne sarebbero uscite. Che solo restando insieme non ci sarebbero state altre Irine, che dovevano rimanere unite, sorelle.
Ma poi si sorprendeva a pensare che di vicino e di sorella non c’era proprio nulla con la donna che aveva difeso il marito stupratore in tribunale, con altre donne che in passato avevano difeso i loro compagni, violenti, con le donne della sua infanzia che educavano i figli maschi alla libertà e le figlie alla sottomissione. Non ce la faceva di fronte a Sophia atterrita, ferita, violentata una seconda volta, a parlare di cultura e sorellanza. Sentiva la rabbia montarle dentro, la sua impotenza stritolarla e sentiva dolore per Sophia, per lei stessa e per tutte le donne, sì, tutte. Anche quelle che ora percepiva lontane, separate, divise e messe in guerra le une contro le altre da catene che erano le stesse per tutte, da sempre. Sentiva la stanchezza di Sophia avvolgerla come una coltre.
E stanca Sophia lo era nel profondo. Non si era riposata mai. Aveva sempre lavorato. A quattordici anni aiutava la madre che si era rovinata la vista alla macchina da cucire e i suoi fratelli nei campi. L’anno dopo sua sorella, nella grande casa dove andava a fare le pulizie. Usciva all’alba per andare a scuola, usciva da scuola per andare a lavorare, tornava a casa e provava a studiare quando non crollava per la stanchezza o non c’erano faccende da sbrigare.
Un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro. Inverni gelidi passati a razionare legna e carbone, cibo e coperte, a cullarsi ostinatamente in un pensiero: non avrebbe vissuto per sempre così. Se ne sarebbe andata in un altro paese, uno di quelli dove gli inverni quasi non esistono e avrebbe trovato un lavoro dignitoso. Mai più avrebbe passato le sue giornate china su pavimenti, rammendi e foglie morte.
«E perché proprio i dipinti? Io non resisterei un giorno in mezzo a tutti quei pennellini microscopici e quei barattoli pieni di liquidi tossici…», le aveva chiesto Milena.
«E io neanche un’ora in mezzo a tutti quei computer e quei telefoni che squillano due alla volta!». Milena sorrideva. «Non saprei come spiegarti», riprese Sophia, «ma vedi, in quelle stanze enormi e gelide, d’inverno, l’unico posto dove veramente faceva un po’ caldo era quella stanza enorme, più delle altre, con il caminetto e tutti quei quadri antichi, che dovevamo farci sempre molta attenzione perché erano di famiglia, qualche antenato che aveva fatto qualche guerra. Avevamo trovato il modo io e Irina, di passarci tanto tempo. Lì non era quasi mai freddo».
Poi Irina se ne era andata, si era trasferita in un altro paese e tornava un paio di volte l’anno. Una volta era arrivata accompagnata da un uomo e con la pancia grossa, sembrava felice.
«Perché non vieni con noi?».
Sophia non ci aveva pensato molto. Non aveva che poche cose. La scuola era quasi finita, aspettò giusto il tempo di prendere il diploma e raggiunse la sorella in Italia.
Ma i primi tempi furono molto duri.
«Quello che non sopportavo più era che mi sembrava di ripetere le stesse cose da cui me ne ero andata. Tutti i giorni con bambini, vecchi, stracci in mano, da una parte all’altra della città, i dipinti li vedevo così poco, Milena, non capivo più se aveva un senso fare tutta questa fatica».
Ma Sophia era stata forte e brava, e presto aveva iniziato a lavorare come restauratrice di dipinti, prima ancora di terminare la scuola.
«Tu non sai com’erano freddi gli inverni da noi», aveva detto una volta Sophia a Milena quasi scusandosi, i primi tempi che vivevano insieme e che a casa loro tutte le piante erano morte per il troppo caldo.
«Ma Sophia, c’è una temperatura qui che sembra di stare ai Caraibi!».
«Tu non sai quanto freddo ho sofferto io e quanta…».
«Cosa?».
«Fame».
Milena si era sentita inadatta. Lei no che non lo sapeva cosa fosse la fame, lei che a casa sua, tutto era incentrato su cosa si cucina oggi, domani, domenica per il battesimo del primo figlio, fortunatamente maschio di quella cugina. Quella che ha fatto un matrimonio buono. Lei che lo sguardo basso della madre, era lo stesso della sorella di Sophia ed era lo sguardo di tutte le donne della sua famiglia.
Tutte tranne quell’altra sua cugina, biondissima, che arrivava dall’estero e che veniva solo d’estate. Pelle bianchissima che dopo due giorni diventava rossa di sole e corse in bicicletta. Quella cugina poi che un’estate era arrivata fumando sigarette e qualcos’altro e con un tatuaggio sulla spalla, e che una volta le avevano sorprese in pineta e alla fine non era più venuta, lei e neanche la madre straniera che si ostinava a non parlare una parola d’italiano.
«Chissà poi dove l’avrà trovata quella lì», diceva la zia vestita di tutto punto in pieno luglio, riferendosi al fratello, lo zio di Milena, che invece aveva continuato a venire, nonostante la moglie, prodigo d’estate, a rimpinzarsi di cibo e affetti famigliari.
E così anche Milena, aveva cresciuto in sé un desiderio. Non voleva vivere così: come la zia, la madre, la cugina col matrimonio buono; e aveva lasciato il suo paese con la scusa di un’università a malapena cominciata e mai terminata, per ritornarci solo raramente e sempre meno.
C’erano state tre udienze preliminari e due processi. Il secondo, quello definitivo era il diciannove novembre 1999.
«Che anniversario infelice», aveva detto Daniela quasi fra sé mentre distribuivano ancora qualche volantino, gli ultimi prima di avviarsi verso il tribunale. Di fronte a loro donne in gruppo srotolavano uno striscione. C’era scritto: «Per Ogni Donna Stuprata e Offesa siamo Tutte Parte Lesa!».
Qualcuna aveva proposto di aggiungere il nome di Sophia, qualcosa di più specifico. Sophia non aveva voluto.
«Sì», dice Milena accendendosi una sigaretta. L’ultima, forse, prima di avviarsi verso il tribunale. «Triste. Speriamo che non vada come allora».
«Cosa?». Sophia era arrivata da dietro, silenziosa nel frastuono di clacson. «Cosa speri che non vada come? Che anniversario?».
«Nulla».
«Milena! E tutti i tuoi discorsi sull’autodeterminazione? Come sarebbe nulla? Non sono una creatura da proteggere! Di che parlavate?».
Daniela si allontana con gli ultimi volantini.
Milena guarda Sophia come se la vedesse per la prima volta, eppure sono mesi che dividono la stessa casa. A ripensarci più tardi si dirà che quello è stato il momento che ha capito di amarla. Sophia ferma nel vento, occhi asciutti e sguardo diritto. Sophia che dirà che non ce l’avrebbe fatta se non ci fossero state tutte e che ora vuole solo tornare ad una vita normale. Sophia che vuole lavarsi via tutto con una doccia lunghissima e bollente, che non vuole sentire più freddo, che non vuole sentire più accuse e non vuole essere protetta perché non è una creatura fragile, un essere imperfetto.
È una donna ferita ma fiera e chiede ancora «cosa?» e Milena che racconta quello che altre le hanno raccontato. Racconta del processo fatto a Marinella anziché ai suoi stupratori. Alcune delle donne che oggi sono qui erano in aula anche quel giorno di undici anni prima. Milena no, lei era troppo giovane, non si era ancora neanche trasferita a Roma.
Ma ricorda bene, Milena, un’altra sera di qualche anno dopo, un concerto in un centro sociale. I componenti di un gruppo musicale a difendere gli amici degli stupratori di Marinella, gli stessi che il giorno del processo erano in aula a insultare Marinella e tutte loro. Ricorda una frase durante una riunione, «sono proletari che sbagliano» e le loro compagne, purtroppo, che li difendevano. Ricorda la rabbia, le spaccature, le liti, gli insulti e la costruzione di uno spazio diverso. Tutte. Tutte insieme.
Era una mattina come questa, aveva detto Daniela che c’era, limpida e gelida. Era il quindici novembre 1988. Non aveva capito, Sophia, credeva che l’anniversario fosse oggi. No, il processo ci fu il quindici novembre. Oggi, Marinella moriva.
Il 15 novembre 1988 Sandro Ramoni, Vittorio Putti e Stefano Ghelli compaiono per il processo di secondo grado davanti alla Corte d’Appello di Roma. Al termine dell’udienza i tre vedono ridotta la pena da quattro anni e otto mesi ciascuno a due anni e un mese. Asserisce l’avv. Fassari, difensore di Ramoni che la pena appare sproporzionata all’entità del fatto. La sera stessa sono tutti fuori.
Quattro giorni dopo Maria Carla Cammarata muore. La sorella Nadia dice «…io avvertii che dentro di lei qualcosa di profondo si era spezzato… e me lo ha confermato più di qualche medico che senza quel colpo, la sua energia vitale avrebbe vinto il male che aveva e che in fondo non era molto grave…».