Lorusso Editore

di Shahd Abusalama (artista palestinese di Gaza, autrice del blog Palestine from my eyes, tradotto in italiano e raccolto nel libro Palestine from my eyes – Una blogger a Gaza; attualmente sta svolgendo un dottorato sul cinema palestinese all’università di Sheffield, nel Regno Unito. Può essere seguita su twitter su @shahdabusalama).
Articolo originale su Electronic Intifada.

Mercoledì sera ho chiamato i miei genitori dal pronto soccorso del Lewisham Hospital di Londra, per informarli che avevo avuto una reazione allergica, non ho ancora capito a cosa. Volevo sentire le loro voci che riescono sempre a darmi conforto nei momenti di incertezza, nella mia situazione di esilio, anche se so bene che loro provano un ben maggiore senso di incertezza, a Gaza. A quell’ora, le 11 di sera in Palestina, loro solitamente dormono, ma ho chiamato lo stesso e, con mia sorpresa, mia madre Halima ha risposto subito. Sembrava preoccupata mentre mi elencava i vari modi per evitare queste reazioni allergiche. Si sentiva la radio in sottofondo, ogni tanto mio padre interveniva interrompendo la conversazione ed entrambi sembravano distratti. Qualcosa non andava.
«Stanno bombardando dappertutto. Dio ci protegga e abbia pietà di noi. Se fossi qui avresti l’impressione che sta cominciando un nuovo attacco su larga scala» ha detto mia madre. «Il cielo è tutto illuminato e si sente un bombardamento massiccio, poi dopo pochi secondi un altro, e un altro, ci trema la terra sotto i piedi. Sembra che i muri debbano crollare da un momento all’altro».

Illustrazione di Shahd Abusalama

Realtà parallele

I miei genitori hanno da poco festeggiato l’arrivo della loro prima nipotina. Si chiama Eliya, uno dei vecchi nomi di Gerusalemme. Da quando è nata lei è il centro delle nostre conversazioni.
«Eliya, sia benedetta, non smette più di piangere, come se percepisse il pericolo. La sentiamo piangere da qui, mentre tuo fratello Muhammad e sua moglie Asma provano a consolarla» ha detto mia madre con tono stanco. «Anche noi siamo nel panico. Immagina come sono terrorizzati i bambini».

Ero assonnata per effetto dell’iniezione antiallergica che mi avevano fatto in ambulanza, ma l’impatto delle sue parole mi ha fatto riprendere. Questa esperienza sembrava riassumere le realtà parallele che ho vissuto da quando ho lasciato Gaza.

Crescendo a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’incertezza definisce la vita quotidiana. La morte è sempre presente, anche se stai facendo la cosa più tranquilla nel posto più sicuro. E impariamo a fronteggiare le nostre peggiori paure continuando a vivere, senza interiorizzare questo orrore come se fosse normale. Questo perché la resistenza è una necessità di fronte a questa vita di incertezza e disumanizzazione.

Gaza è solo una parte di un sistema molto più grande di violenza, deportazione e reclusione progettato da Israele e finanziato e accettato dalla cosiddetta comunità internazionale. La realtà di Gaza è il prodotto del colonialismo, della pulizia etnica, di un militarismo sadico, delle ideologie suprematiste e dell’ipocrisia morale. È la vetrina della disumanità non solo di Israele ma del mondo intero. Sin da quando sono stata in grado di comprendere le ingiustizie che mi circondavano, da bambina, mi svegliavo ogni giorno chiedendomi come fosse possibile che nonostante ripetesse incantato gli slogan sui diritti umani, il mondo permettesse alla nostra situazione di continuare.

 

Silenzio inquieto

Giovedì mattina ho chiamato i miei appena mi sono svegliata. Mio fratello e sua moglie avevano passato la notte insonne per i pianti della loro bimba di due settimane. Mia madre, che era appena tornata dal lavoro, non vedeva l’ora di riposare dopo la notte agitata. Fa l’infermiera nel campo profughi Beach (Spiaggia, chiamato dai palestinesi Al-Shati, ndt), nella clinica pediatrica gestita dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi. Invece si è appoggiata alle mattonelle della porta che dà sul giardino per prendere un po’ di fresco, poiché a causa della mancanza di elettricità, tranne alcune ore al giorno, a casa non possono usare l’aria condizionata che hanno da poco installato. Quando si è seduta, mi ha raccontato alcune storie delle madri che erano venute alla clinica.

I genitori di Shahd Abusalama durante le proteste della Great March of Return nella Striscia di Gaza

«Molte donne mi hanno detto che non hanno dormito stanotte perché i loro bambini piangevano per la paura» ha raccontato mia madre. «Si avvinghiavano a loro».
Altre dicevano che i bambini, anche i più grandi, avevano bagnato il letto.

«Dio li aiuti» ha detto mia madre scuotendo la testa. «Io vi ho cresciuto in situazioni straordinarie e ho paura che anche Eliya crescerà in condizioni simili, se non peggiori».

Con un occhio guardavo mia madre sullo schermo del cellulare, con l’altro davo un’occhiata al moderno skyline di Londra, dall’appartamento all’undicesimo piano di un amico, su una città e un mondo che sembravano completamente indisturbati da ciò che accadeva in Palestina. La nostra conversazione si è interrotta in un silenzio inquieto da cui si capiva che c’era altro, non detto. Ma ho capito perfettamente mia madre senza che dicesse una parola. Ricordo come, quando eravamo tutti sulla stessa barca, subendo la stessa violenza, difficilmente esprimevamo le nostre emozioni individuali. Non potevamo che essere forti l’uno per l’altro, e supportarci a vicenda per andare avanti.
Poi mia madre ha parlato di come la maggior parte delle famiglie di Gaza avessero perso un loro caro, o avessero qualche familiare con disabilità permanenti a causa degli attacchi israeliani. La gente è esausta, per la catastrofe umanitaria e la terribile situazione economica causate dall’assedio di Israele.
«Noi siamo in paradiso, rispetto ad altre famiglie che sono completamente dipendenti dalle Nazioni Unite e non hanno nemmeno uno stipendio regolare in casa» ha osservato mia madre.
I tagli Usa ai finanziamenti dell’Unrwa e le trattenute dell’Autorità Palestinese sui salari degli impiegati statali stanno rendendo le vite ancora più precarie.

«Non ce ne staremo fermi»

Mia madre sembrava angosciata mentre parlava dell’insostenibile situazione e rifletteva che le difficoltà da affrontare in tempi di guerra parevano quasi più sopportabili di quelle che venivano dopo.
«Precisamente!» ho detto, sforzandomi di mettere un po’ di speranza nella conversazione. «Ciò che porta la gente a protestare vicino alle recinzioni di Israele è il fatto che non hanno niente da perdere se non una vita di miseria. Affrontare e tirare i sassi ai cecchini israeliani appostati dietro le recinzioie è un mezzo di sopravvivenza per fuggire a questa spirale di impotenza».
Ho detto a mia madre che pensavo che fosse un atto di audacia e di dignità. Almeno 120 palestinesi sono stati uccisi durante le proteste della Great March of Return iniziate il 30 marzo, più di 20 di essi bambini (il bilancio è ora di 130 morti, di cui 23 bambini, ndt).

«Era meglio quando vivevamo sotto occupazione militare» ha detto mia madre interrompendomi.

Si riferiva agli anni dal 1967 al 2005, quando Israele manteneva soldati e coloni all’interno della striscia di Gaza, anziché assediarla dall’esterno. Ero confusa e le ho chiesto di spiegarsi.
«Ci scontravamo con loro, all’epoca, come ora alla Great March of Return ma ancora più da vicino» ha detto. «Loro potevano usare la forza militare con noi ma avevamo un modo di resistere e questo era in qualche modo consolante. Rimanevamo davanti a loro senza paura, nonostante sapessimo che avrebbero fatto ciò che erano indottrinati a fare, imponendo posti di blocco, coprifuoco, facendo irruzione nelle case e arrestando persone» mi ha spiegato mia madre. «Ma saremmo comunque rimasti in piedi di fronte a loro, come quando provarono a rapire tuo padre, o uno dei tuoi zii, gridandogli contro e maledicendoli, occhi negli occhi. Ogni famiglia era come i Tamimi a Gaza, durante la prima Intifada» ha detto, riferendosi alla famiglia di Ahed Tamimi, la ragazza in Cisgiordania diventata celebre per il suo ruolo nella resistenza popolare all’occupazione e alla colonizzazione israeliana nel villaggio di Nabi Saleh.
«Ricordo quando l’esercito irruppe in casa nostra nel cuore della notte, subito dopo che nascesti tu, per cercare tuo padre. Buttarono tutto all’aria e rubarono le fotografie e i taccuini di tuo padre» ha detto mia madre. «Noi non stavamo fermi mentre loro distruggevano tutto. Resistevamo. Li spingevamo e gli buttavamo contro le cose che ci rompevano. Ora possono tranquillamente lanciarci addosso i missili dai loro aerei da guerra, dalle navi o dai carri armati, mentre siamo nelle nostre case senza poter far niente».
Mia madre si riferiva alla mamma incinta e alla sua giovane figlia uccise a casa loro in un attacco aereo israeliano mercoledì sera.
«Poteva esserci ognuno di noi al posto loro» ha detto.
Ogni volta che parlo con qualcuno della mia famiglia, dicono che quasi niente è cambiato, come se il tempo si fosse dimenticato di quell’angolo di mondo. Ma il tempo non li ha del tutto dimenticati. Loro vivono il tempo in maniera differente: è una nuova forma di occupazione militare che ha trasformato Gaza in una gabbia, un laboratorio per le tecnologie letali da vendere ad altri paesi come “testate in battaglia”.
Vivono il tempo come in una regressione, con la resistenza – non accettare la loro anormale situazione come normale – come unica maniera per liberarsi.

Vivere l’orrore di Gaza da lontano