Lorusso Editore

Rifugiati – Gorizia, la fiera dell’est di un’emergenza che può tornare

di Enrico Campofreda (autore di Leggeri e pungenti – Storie, luoghi e volti di periferia)

Un anno dopo l’emergenza rifugiati, che la città del confine orientale ha vissuto fra contraddizioni e azioni virtuose, in quell’area potrebbe riaprirsi una nuova rotta balcanica. E c’è chi pensa di fare della Bosnia una piccola Turchia

Le foto nell’articolo sono realizzate da Enrico Campofreda, tra Gorizia e Trieste

La galleria Bombi, da tempo tornata passaggio pedonale scarsamente usato dai pedoni, non è più il buco nero dove si misuravano le due anime di Gorizia. Quella solidale e quella ferocemente respingente il flusso umano che, dalle alture slovene, scendeva in città col volto emaciato e lo stomaco in subbuglio. Non per bagordi, ma per fame. I migranti e richiedenti asilo pakistani e afghani – che un anno fa erano passati dall’ex valico di Casa Rossa oppure scollinando fra la boscaglia s’erano ritrovati in piazza della Vittoria, per poi finire stretti stretti a difendersi dal freddo nel tunnel che percorre il ventre del Castello medioevale – oggi non fanno più paura. Dell’ondata di oltre un centinaio di anime raccolte in quel luogo restano alcune decine, accudite da associazioni come Insieme con noi, dalla Caritas e dalle parrocchie locali che offrono pasti, posti letto, istruzione e qualche prospettiva d’inserimento lavorativo.

Città in disarmo

Oddio, quest’ultime sono sempre meno, perché la crisi morde in una zona dove la servitù militare delle caserme (ce n’erano tredici ancora nel 1990) ha pasciuto generazioni di goriziani. Ma dalla cancellazione della naja obbligatoria, scattata il 1° gennaio 2005, non è più così. I giovani van via, la città invecchia e dal 2000 perde ogni anno fra le duecento e le trecento presenze, defunti a parte. Chiudono botteghe e rivendite storiche, addirittura la “Krainer & comp” ferramenta quasi centenaria, dove il cliente trovava la vite più minuta e la serratura più complessa, tutto conservato in meravigliosi cassetti di legno d’un arredo liberty che era arte allo stato puro. Nella città del passato che muore gli amministratori, sindaco in testa, Rodolfo Ziberna, classe 1961, laurea in giurisprudenza, consulente legale prestato alla politica sotto la bandiera di Forza Italia, hanno guardato con occhi atterriti l’emergenza d’un anno fa. Ai migranti riparati sotto la galleria Bombi chiuse anche il vicino fontanino dove bevevano e si lavavano, prima di sigillare la galleria stessa col benestare del commissario governativo e prefetto di Trieste, Annapaola Porzio. «Un gesto di un’inumanità assoluta» commenta a un anno di distanza Andrea Picco, consigliere comunale d’opposizione che quell’emergenza ha convinto ancor più per fare qualcosa nel proprio microcosmo abitato da tanta indifferenza e cinismo.

La vita con gli altri

Per fortuna dei rifugiati che sono transitati da questo confine, e per i pochi che restano tuttora a Gorizia, in città agiscono i volontari che, in certi casi, quei profughi li ospitano sotto il proprio tetto. Accade a Maria Vinti e Giorgio Carnauli, tre figli, sette nipoti, lui un passato di carpentiere ed elettricista industriale con la passione del rock suonato, mentre la moglie girgentina ha trovato nel volontariato un orizzonte per guardare il mondo fuori dalle frontiere. Quando un anno fa hanno accolto in casa come ospiti, Muhammad Imran, 28 anni, e Hussian Mubashar, 30, entrambi provenienti dal Pakistan dopo traversie e otto nazioni attraversate, hanno affrontato due aspri confronti. Quello con la burocrazia statale, fatto di documenti, firme, permessi non è stato più complicato dell’altro affrontato con un figlio che s’opponeva alla scelta. Spiega Maria: «Non ci siamo fatti molte domande, abbiamo deciso dove sistemarli e l’abbiamo comunicato alla famiglia. Personalmente la cultura dell’ospitalità l’ho appresa da mio padre che c’insegnava apertura e generosità». «Devo ammettere d’essere andato controcorrente» dice Giorgio «ma non mi sono scoraggiato. Un figlio e un genero ponevano domande diventate oppositive al progetto. Ho affrontato quest’ostilità con fermezza, sostenendo la priorità di scelta assieme a mia moglie: in casa, nella nostra casa, decidiamo noi cosa fare. Voi figli potete accettare la scelta e condividerla o meno. È stata ed è ancora dura, perché forse solo dopo mesi stanno comprendendo cos’è l’umanità». Maria chiosa: «Quest’esperienza insegna molto anche ai nipoti più d’ogni predica religiosa o laica».

Preti di frontiera

Chi le prediche non le fa invano è un sacerdote mica tanto giovane, ma dallo spirito adolescente. Don Ruggero, ottantacinque anni, nella comunità parrocchiale di san Rocco è una coscienza critica che coinvolge e costruisce cultura umanitaria insieme alla solidarietà. Nei locali attigui alla parrocchia, volontari come Maria Vinti, Barbara Franzot, Monica Musina, Cassandra Capochiani e decine di donne e uomini distribuiscono pasti e indumenti al gruppo pakistano tuttora presente in città e ospitato nella struttura del Nazzareno. Don Ruggero, dopo i sacerdoti Paolo e Walter, prosegue l’impegno di pensiero e azione e quando occorre non le manda a dire, un po’ a tutti. Afferma: «Ciò di cui accuso la mia istituzione, è di non promuovere percorsi educativi. Se non riusciamo a capire che la nostra casa è la comunità allargata che si chiama genere umano, i confini orizzontali e verticali tradiscono il senso dell’umanità. Se anche noi perdiamo queste coordinate, tradiamo il credo e la nostra missione. Nessuno ha diritto di dire: io sono più importante perché sono arrivato prima, la famiglia umana non può escludere nessuno. Ancor’oggi la pratica religiosa rischia di rimanere circoscritta alla sacralità di certi gesti senza occuparsi della vita reale, il messaggio religioso ci chiede solo d’essere capaci di amare, nelle situazioni ordinarie o di emergenza. Vivere il momento, concentrarsi sui bisogni soggettivi può condurre comunità laiche e religiose a restare abbagliate dai propri desideri perdendo il contatto con la realtà, e facendo ricomparire il vizio razzista che sembrava annientato. Conforta costatare come in situazioni particolari – dal 2001 al 2005 coi profughi kurdi (ne sono passati in città fino a 15.000 ricollocati in altre zone, ndr) e l’anno scorso coi giovani pakistani – l’assistenza non è mancata».

Volontariato in difficoltà

I parrocchiani di San Rocco sono persone meravigliose, e per Hussian il calore umano è più importante di quello dei termosifoni che, dopo le coperte dei volontari per riscaldarsi sotto la galleria Bombi, ha trovato nell’abitazione di Maria e Giorgio. Ma il suo è un caso fortunato. Monica, che oltre all’impegno di volontariato è occupata come mediatrice culturale, rivela senza mezzi termini il lato oscuro d’una parte di questa città di confine che ha voltato le spalle alle richieste d’aiuto: «Non possiamo nasconderlo, in città c’è chi ha guardato e guarda con sospetto la nostra opera. Per fortuna abbiamo avuto un buon riscontro con gli studenti delle medie. La spaccatura avviene con gli adolescenti che, forse adeguandosi al sentire politico del momento, rigettano la via dell’accoglienza. Altro limite, perlomeno nella nostra zona, è la settorialità delle esperienze. C’è chi offre pasti e vestiario, chi alloggio, chi didattica però le iniziative restano slegate e questo sminuisce l’impatto virtuoso, di fronte a una politica locale e nazionale sempre meno propense a sostenere azioni di civiltà». Prosegue: «Nei miei tre anni d’impegno pieno, in cui ho ricoperto varie mansioni, mi sono accorta che abbiamo bisogno di tante conoscenze. Quella del diritto non è trascurabile per raggiungere conquiste significative, io mi sono messa a studiare normative e anche leggi generali. Purtroppo i professionisti in toga che ci coadiuvano sono pochissimi e in tanti casi occorre far da soli per non trovarsi spiazzati. Non padroneggiare la materia burocratica è una debolezza che può vanificare giorni e settimane d’impegno. Ora il pericolo sostanziale è l’attacco al sistema Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati) condotto dal cosiddetto “Decreto Sicurezza”. Il governo afferma il contrario, ma chiunque sia impegnato con le figure di rifugiato e richiedente asilo non sa se potrà proseguire un lavoro che durava da un ventennio».

Il sistema Sprar

Per verificare questo, ci spostiamo nel capoluogo friulano, cercando, a due passi dalla monumentale piazza Unità, la sede del Consorzio Italiano di Solidarietà dove lavora Gianfranco Schiavone che del sistema Sprar è stato artefice e testimone. Col Consorzio, che ha da poco compiuto vent’anni, Schiavone ha affrontato il tema dei rifugiati nel nostro paese sin dai primordi. Ricorda: «Negli anni fra il 1998 e il 2001, nel comune di Trieste, abbiamo avviato quella sperimentazione che sarebbe confluita nello Sprar ed è proseguita fino a oggi. La lunga durata fa sì che la situazione triestina sia diversa dal resto del paese. Qui c’è sempre stato un sistema d’accoglienza funzionante, tuttora, nonostante le politiche in atto, il meccanismo è di buona qualità, fondato su una disponibilità diffusa nel territorio. Nel Consorzio lavorano 140 operatori al servizio di un migliaio di ospiti. I fondi utilizzati sono statali, sebbene ci siano anche altri progetti finanziati dall’Unione Europea. La recente riforma varata dal governo Conte, sembra fatta apposta per fornire all’opinione pubblica scarsa comprensione del problema. Appare molto tecnica, in realtà è una legge dal profondo contenuto politico. Il sistema precedente, esistente dal 2002, era variegato anche dal punto di vista normativo a causa di tagli e abrogazioni. Era un sistema binario, comprendeva anche i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) con la netta prevalenza delle strutture governative. Solo nel 2015 lo Stato, col decreto legislativo n. 142, decise di far diventare il sistema Sprar, fino a quel momento ben funzionante, l’unico sistema di accoglienza. Eppure ciò non è avvenuto fino in fondo e la legge è risultata disapplicata sia per il contesto socio-politico internazionale, sia per un clamoroso errore giuridico. L’anno della promulgazione della norma è coinciso con l’enorme rotta migratoria, proseguita anche nel 2016. Si è creata una sproporzione fra la crescita del sistema Sprar, comunque lenta, e il fabbisogno reale di posti, cosicché l’apertura di centri straordinari diventava inevitabile. Quest’inevitabilità ha prodotto una sperequazione fra un 80% di posti d’accoglienza straordinari e solo il 20% ordinario. Tale situazione ha completamente rovesciato l’organizzazione dell’accoglienza, ponendo ai margini i centri Sprar. A questo si deve aggiungere un approccio confuso del legislatore, che voleva e non voleva andare verso il sistema unico, non si sentiva d’imporlo e ha finito per mantenere una volontarietà di adesione alla rete. Non si è verificato un trasferimento di funzioni amministrative ai comuni, considerando questo tipo di servizio un sistema assistenziale gestito dagli Enti locali con fondi statali, perché c’è stato un timore politico nel fare questo passo. L’omissione s’è rivelata fatale: ha provocato l’esplosione dei Cas, che secondo il piano dovevano scomparire, e sul tema dell’accoglienza è scoppiato un finimondo abilmente strumentalizzato dalle forze di estrema destra».

La protezione e i suoi nemici

«Giocando su chi fa e cosa, certa politica ha dato il peggio di sé. Pur di fronte a un’esigenza evidente, ha trascinato i comuni che gestiva a praticare un boicottaggio del sistema Sprar. Posto che per tredici anni non c’era stata alcuna emergenza, possiamo dire che fino al governo Gentiloni abbiamo assistito a una tendenza che cercava di normalizzare il piano di accoglienza. Ma è diventato un percorso a metà, non si è capita l’importanza strategica d’una pianificazione globale. Ricordare questo serve a comprendere l’attualità che mostra l’esplicito obiettivo di ridimensionare gli Sprar. Prima del Decreto Sicurezza s’era già verificato il blocco delle domande per l’apertura di nuovi centri. Tanti italiani non sanno che ben 100 comuni stanno subendo un ostracismo e, vista l’aria che tira, queste strutture non apriranno mai. Diffondere i rifugiati sull’intero territorio nazionale significava evitare ingorghi ed emergenze, evitare sprechi di fondi e soprattutto praticare un controllo dei costi. La rendicontazione Sprar è analitica, non permette margini di guadagno per nessuno, né alle associazioni né ai privati. Quel che non viene speso viene restituito, non è un sistema ad appalto ma prevede il finanziamento dei progetti su conti precisi. Tutto ciò teneva lontano fremiti speculativi e stabiliva una continuità delle prestazioni per il richiedente asilo, dal momento del suo ingresso lungo tutto il percorso di assistenza ed eventuale inserimento nel tessuto socio-lavorativo. Non è un caso che il sistema, fin dalla nascita, sia stato definito di protezione, non di accoglienza. E proprio nel 2018, di fronte a una diminuzione degli arrivi, coi nuovi bandi previsti nei comuni, i centri Sprar avrebbero potuto normalizzare la situazione dei rifugiati. Ripeto: tutto ciò è stato impedito dalla politica sostenitrice dell’eccezionalità in luogo delle regole, per poi introdurre chiusure ed esclusioni. Sono quei partiti che vogliono trarre vantaggi dalla paura costante a fomentare il caos. È sempre stato così: la fabbrica della paura necessita della fabbrica del disordine. Su queste basi l’esecutivo Conte ha deciso di svuotare totalmente i contenuti del sistema di protezione, facendo in modo che gli Sprar non s’interessino più dei richiedenti asilo. Delle quattro grandi categorie di cui s’occupava il sistema Sprar: richiedenti asilo, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria, titolari di protezione umanitaria, due spariscono, due rimangono. Di fatto si cancella un servizio per il 70% dei beneficiari. Il restante 30% entra in parte nei centri governativi, che tornano a essere il vero sistema di gestione, un sistema governato dalle prefetture con tutte le enormi carenze riscontrate nell’ultimo decennio. Una prefettura non dispone di servizio sociale né di operatori, coi suoi funzionari può svolgere solo un lavoro burocratico, controllando quel che riesce a fare, spesso senza competenze tecniche. La tendenza torna a favorire mega strutture con un basso livello di servizi, mentre per anni s’è cercato di trasformare le situazioni emergenziali dei Cas nel modello Sprar che garantiva non solo bisogni primari, ma tratti ben più articolati di adeguamento alla vita delle persone. Un caso esemplare è stato quello di Bologna che, nel 2017, aveva fatto transitare tutta l’opera svolta nei Cas nel sistema unico Sprar».

La forza della cultura e la sconfitta

«Di fatto» conclude mestamente Schiavone «dobbiamo registrare una sconfitta, perché il tema di rifugiati e richiedenti asilo non è entrato nel patrimonio culturale della nazione. La responsabilità è un po’ di tutti, a tutti i livelli. Negli ultimi anni abbiamo riscontrato un appiattimento gestionale, come se gestire bene fosse garanzia di promozione e ulteriore sviluppo. Lo si faceva in silenzio, visto che la questione non era popolare. Così è mancata una narrazione favorevole a quanto di buono s’è fatto, mentre i detrattori suonavano la propria grancassa parlando di un’invasione, mai avvenuta se si guardano i numeri». Chi nell’area goriziana cerca di poeticizzare l’intervento coi rifugiati è Renato Elia, settant’anni vissuti bene, da un anno e mezzo animatore con una propria associazione che opera nella struttura del Nazzareno. «Ci occupiamo di cultura democratica attraverso una divulgazione educativa che spiega come funzionano i diversi livelli dell’apprendimento. Col metodo Helias das licht che si avvale di colori, stimoliamo la fantasia degli allievi (tutti migranti, ndr) per scoprire se stessi. Ovviamente non ci limitiamo al dipinto, questo è il presupposto per analizzarsi e procedere su altri terreni, didattici e non. Parliamo di questioni pratiche dal lavoro alla famiglia, lo facciamo trattando storia, lingue, scienze, psicologia, educazione civica e civile». Elia che di sé dice d’esser nato a Udine per caso, d’essere innamorato di Gorizia pur avendo sangue leccese ma di sentirsi cittadino del mondo, ha avuto scuola di vita dal padre. «Da bambino lo seguivo sul confine orientale. Sentivo i contadini che parlavano lingue differenti, i militari con dialetti diversi e già lì mi abituavo alla multicultura. In compagnia di anziani del luogo giravo attorno a una frontiera che nel dopoguerra era fortemente militarizzata. Il contatto con gente varia mi ha fatto comprendere che chi vuol fare politica deve conoscere la vita. La politica non è l’apparato di partito, i partiti servono interessi di parte, quasi mai interessi generali. Da decenni sostengono di vivere in pace. Mentono. Crediamo d’essere in pace, ma i conflitti sono sempre presenti in noi e attorno a noi. Se non stiamo attenti coi modi sempre più aspri di far politica potremmo trovarci, in un giorno neppure tanto lontano, dentro un processo conflittuale enorme. Gli anticorpi a questa catastrofe possono venire dalle culture d’ogni genere, da una società multirazziale che inevitabilmente si ripropone da millenni, pur negata dai più stolti e fanatici. La Storia è fatta di migrazioni, evitarne l’aspetto deteriore basato su occupazioni e guerre è compito di tutti. Non c’è scampo: ciascuno può essere divulgatore di sinergie positive o creatore di barriere imposte con la paura».

Fortezza Europa e parcheggio bosniaco

Lorena Fornasir e Andrea Franchi, l’una psicoterapeuta l’altro ex insegnante di filosofia, viaggiano da sei mesi da Trieste, dove vivono, sino in Bosnia. Raccontano: «Ci occupiamo di rifugiati dal grande esodo del 2015, quello che ha dato vita alla prima rotta balcanica. Dallo scorso giugno ci rechiamo periodicamente in Bosnia. A Bihać e in altre piccole località sul confine croato abbiamo incontrato associazioni locali di volontariato che assistevano le centinaia, e poi le migliaia, di giovani che provavano a infilarsi nelle fitte maglie che la polizia croata stende per impedire il passaggio a nord-ovest. Oggi l’aspetto più grave sono i respingimenti. Secondo il diritto internazionale questi migranti potrebbero presentare domanda d’asilo, ma le autorità locali glielo negano mentre vengono praticati respingimenti brutali dalla polizia croata. Anche in Slovenia, a metà dicembre, sono stati respinti gruppi che s’approssimavano al confine italiano. Il trattamento riservato ai profughi è feroce: abbiamo raccolto testimonianze di sevizie e abusi su donne e bambini. Inoltre si cerca di terrorizzare i migranti puntandogli le armi sul volto. E sono tutte azioni svolte dalle forze dell’ordine. In barba al diritto internazionale diversi respingimenti si verificano pure in Italia. Alcuni giovani mediorientali, che erano giunti a Trieste e avevano presentato domanda d’asilo, li abbiamo ritrovati a Bihać (vedi il reportage da Bihać di Patrizia Fiocchetti, ndr). Il nostro paese fa parte di quel laboratorio che con Slovenia e Croazia, vuol chiudere ermeticamente la fortezza Europa. Negli ultimi mesi il ministro dell’Interno croato s’è vantato degli oltre settemila allontanamenti, un dato con cui vuole accreditare il paese per l’ingresso nell’Unione Europea. Né vanno taciute le vittime delle operazioni repressive al confine: c’è chi muore di botte e chi di stenti quando si viene braccati nei boschi. Purtroppo proprio in questi giorni abbiamo avuto notizie dei decessi d’un siriano e un algerino, annegati mentre fuggivano da una retata di agenti croati. C’è una lista lunghissima di persone scomparse di cui i familiari non sanno più nulla. Vite non degne di lutto che non hanno diritto neppure a una sepoltura o un ricordo. Siamo davanti a situazioni atroci, indegne di sedicenti società civili che restano indifferenti a ogni tragedia. Invece in alcuni villaggi poverissimi come Kladuśa, accanto ad alcune associazioni di volontariato e alla Croce Rossa, abbiamo visto singole famiglie offrire aiuto ai fuggitivi. La storia, anche recente di queste genti che conoscono bene cosa vuol dire esser profugo, produce comportamenti empatici e fraterni che il nostro benessere ha cancellato. Ora bisogna vedere se situazioni come quella del cantone di Una-Sana, dove c’è un campo di raccolta di oltre duemila persone, si riprodurranno in altri punti della Bosnia. L’Unione Europea di fronte al reale pericolo d’una seconda rotta balcanica – con pakistani e afghani sempre in prima fila, ma non soli, perché ci sono iraniani, iracheni, kurdi – potrebbe adottare una soluzione simile a quella proposta al governo turco coi siriani: campi profughi in cambio di finanziamenti». In quel caso Erdoğan ha ricevuto una contropartita miliardaria, per ora a Sarajevo sono giunti solo otto milioni di euro. Ma la soluzione del mercimonio per tenere fuori il problema deve fare i conti con la tipologia delle emergenze. Il dissesto mediorientale può, comunque, riproporre nuove e impagabili ondate di lutti e di dolore in movimento.

Gorizia e Trieste 20-22 dicembre 2018

Pubblicato sul mensile Confronti

Rifugiati – Gorizia, la fiera dell’est di un’emergenza che può tornare