di Patrizia Fiocchetti (autrice di Variazioni di Luna – Donne combattenti in Iran, Kurdistan, Afghanistan e Cosa c’è dopo il mare)
Questo articolo è apparso sulla rivista Insieme – mensile delle missioni pastorali di Berna)
Si può morire per una ciocca di capelli fuori posto? Mahsa Amini era una giovane iraniana di 22 anni, figlia di una famiglia di etnia curda. Il 16 settembre scorso si trovava a Teheran dove insieme ai genitori si era recata in vacanza, ed è lì che ha trovato la morte. Una ciocca di capelli scivolata fuori dal foulard, la Gasht-e-Ershad (polizia morale) che la ferma, come da anni fa con le donne che ritiene non rispettose del codice di condotta morale nel vestire, la trascina in un commissariato da dove uscirà in coma. Spirerà in ospedale dopo tre giorni per i colpi violenti infertile alla testa e al corpo.
Si può diventare simbolo di una ribellione proprio malgrado?
L’uccisione di Mahsa Amini ha rappresentato la classica goccia che fa traboccare un vaso pieno fino all’orlo di rabbia, esasperazione, frustrazione di una popolazione che da più di 40 anni vive sotto un regime di repressione e terrore, un sistema che entra all’interno della vita privata di ogni singola persona strangolandone la libertà di azione e pensiero.
Fin dall’inizio dell’ascesa al potere del defunto Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica Islamica, manifestazioni di protesta si sono succedute nel paese, soprattutto con la richiesta di riconoscimento dei diritti umani, civili, sindacali e, prima tra tutti, delle donne.
Proprio sulla questione dei diritti delle donne vorrei soffermarmi e sul senso della rivolta contro l’obbligo del velo che è entrata oggi nel suo diciannovesimo giorno e continua a incendiare le strade di tutte le città, non solo della capitale e dei principali capoluoghi ma anche dei centri più piccoli, rurali e storicamente conservatori, nonostante la spietata repressione messa in atto dai tanti apparati esistenti (se ne contano ben 32) che ha causato già più di 200 morti e migliaia di arresti.
Il 7 marzo 1979 Khomeini, da pochi giorni rientrato in Iran dal suo esilio in Francia emetteva il decreto per cui tutte le donne iraniane a prescindere dalla propria appartenenza religiosa o etnica, avrebbero dovuto indossare lo hijab, il codice di vestiario che rende obbligatoria l’osservanza di coprire i capelli e indossare abiti che celino le forme del corpo. Il giorno dopo, 8 marzo giornata internazionale della donna, centomila iraniane di tutte le età, estrazione sociale e credo religioso manifestavano contro tale imposizione.
Poco più di un anno dopo, quando già in Iran erano in atto gli arresti segreti di attivisti e oppositori tra cui molte donne, sempre Khomeini nel corso di un sermone del venerdì tuonava: il riflesso del sole sui capelli delle donne è uguale al riflesso delle fiamme dell’inferno. Lo ricordo perfettamente perché lo ascoltai in televisione sottotitolato in inglese e ne fui scioccata. Da quel giorno la repressione contro le donne e contro il popolo tutto, l’intrusione degli apparati di sorveglianza e sicurezza nella vita di ogni singola persona e la punizione fino alle estreme conseguenze di arresti, torture ed esecuzioni non si sono più fermate.
La Repubblica Islamica fondata da Khomeini e portata avanti con lo stesso rigore dal suo successore Khamenei, malato e sulla cui successione è in atto una lotta intestina di cui poco si fa trapelare, hanno fatto della misoginia e della repressione delle donne in ogni aspetto della loro esistenza il pilastro fondante della propria sopravvivenza.
Alcuni esperti nostrani negli anni hanno proposto analisi, chi per ingenuità chi per colpevole condiscendenza se non addirittura complicità ideologica con il regime, che tale sistema patriarcale e dittatoriale potesse essere in qualche modo riformato concedendo qua e là alcuni spiragli di respiro alle persone. Un maquillage di parametri occidentali applicato su un contesto complesso e avulso quale quello iraniano. Difatti, nessun governo definito “riformatore” ha mai operato per far deflagrare la struttura su cui la Repubblica Islamica dell’Iran affonda le proprie radici, ovvero la supremazia della “guida suprema” da cui tutti gli apparati e organi istituzionali dipendono: avrebbe significato la fine di tutti coloro che tale sistema hanno contribuito a costruire e tenere in vita.
Negli ultimi anni si sono succedute manifestazioni di categoria contro il carovita, la corruzione imperante negli apparati del regime, per la mancanza d’acqua, per la devastante gestione delle misure di contrasto al Covid… e le donne sono sempre state in prima fila con il loro rusari (foulard) scostato sulla testa o abbandonato, sulle spalle, consapevoli del loro ruolo.
Mahsa Amini non è stata la prima a morire per “bad hejabi”. Ma il motivo della sua uccisione ha messo il suggello alle tante rivendicazioni portate avanti dalle persone in Iran.
Le iraniane oggi hanno occupato completamente la scena, nelle tante università che si sono sollevate, nelle scuole superiori dove le ragazze affrontano impavide gli sgherri del regime. Nelle piazze, per le strade. E gli uomini di qualsiasi età, parentela ed estrazione sociale, sono con loro. Non urlano contro l’Islam, ma contro il regime. Gridano marg bar diktator (morte al dittatore) e molte di loro sono musulmane osservanti. Pretendono il diritto di scegliere come vestire perché è il cammino per arrivare al raggiungimento delle tante altre libertà e diritti, lo vogliono strappare dalle mani dei clerici. Per questo bruciano il velo e si tagliano i capelli in segno di lutto.
Ciò che sta accadendo in Iran ha una valenza politica potente: attraverso la liberazione delle donne passa la liberazione di tutto il paese dalla repressione e l’oscurantismo. Al nome di Mahsa Amini si vanno aggiungendo quelli di tante altre sue connazionali. Al grido di “Donna, Vita, Libertà”, Zan, Zendeghi, Azadi.
4 ottobre 2022