Recensioni di libri e altro
di Giusi Palomba
Il cambiamento climatico è ormai presente nella vita delle persone, prevalentemente sotto forma di ansia, preoccupazione nel nord globale, e dislocamenti, devastazioni o distruzione del tessuto sociale nel resto del mondo. Inizia a essere chiaro anche a chi ha strenuamente ignorato o negato il problema fino a ora.
Ma cosa di questo emerga dalla letteratura, dall’arte, dalla narrazione del reale in genere degli ultimi anni, è un altro paio di maniche. La catastrofe climatica è più che una paura, più che una remota possibilità, ma raramente entra nelle storie che amiamo raccontarci. Viene “relegata” alla saggistica o alla fantascienza, un problema del fantastico o per lo meno lontano nel tempo.
Il motivo sembra essere quello di non voler deludere la “fiducia borghese nella regolarità del mondo”, o almeno è la spiegazione che Amitav Ghosh, scrittore indiano in lingua inglese, dà alla quasi totale assenza del tema nella narrativa attuale. Ghosh si interroga sul ruolo di chi scrive e crea storie in anni cruciali per il futuro della specie umana e afferma:
I cambiamenti climatici sono troppo potenti, troppo pericolosi e troppo accusatori per essere descritti in tono lirico, elegiaco o romantico.
La grande cecità – Il cambiamento climatico e l’impensabile è un saggio che si muove tra le storie, la storia e la politica (le tre sezioni del libro), offrendoci una prospettiva inedita, non eurocentrica, sul problema. Questo saggio esce nel 2017, e bisogna dirlo: qualcosa sembra essere cambiato da allora, i movimenti globali per la giustizia climatica scuotono l’Occidente, anche quello privilegiato, da sempre accusato di inazione, e sembra non sia più tanto facile eludere il problema.
Le considerazioni e analisi sono ancora attualissime, pensiamo a quelle annidate tra i capitoli su storia e politica: l’industrializzazione dei paesi asiatici, il vissuto coloniale, il ruolo delle grandi potenze mondiali nell’accelerazione o rallentamento dell’emergenza. Amitav Ghosh pone questioni importanti: se è vero che le potenze occidentali sono state cruciali nell’aggravarsi della crisi, è anche vero che i paesi asiatici si sono industrializzati più lentamente per un motivo preciso.
Lo stile di vita occidentale non sarebbe stato sostenibile per tutti e avrebbe condotto il mondo al collasso molto prima del previsto.
Questo era molto chiaro alla Gran Bretagna, ad esempio, che come soluzione al rischio, rese le tecnologie inaccessibili, e mantenne i popoli asiatici nell’arretratezza per una questione di disponibilità delle risorse; nel mentre si impegnò costantemente nel descriverli come indolenti, arretrati e corrotti, come si evince da fonti risalenti all’Ottocento. Ecco il paradosso: le economie dell’Asia, senza la loro storia di dominazione, avrebbero aggravato la crisi climatica più velocemente. La complessità della storia non indebolisce la richiesta di giustizia globale, secondo Ghosh, piuttosto rende più nitide le disuguaglianze e le ragioni: la povertà del sud del mondo è un effetto di ben precise logiche economiche.
Amitav Ghosh ha da poco pubblicato un altro romanzo, si chiama L’isola dei fucili (ed. Neri Pozza) e risponde proprio a questa urgenza di racconto e alla tendenza a concepire il romanzo non più come “avventura morale individuale”, ma come mezzo per introdurre la dimensione collettiva nell’immaginario. “L’isola dei fucili” è
Un viaggio mirabolante, che attraverserà secoli e terre, e in cui antiche leggende e miti acquistano un nuovo significato in un mondo come il nostro, dove la guerra tra profitto e Natura sembra ormai non lasciare più vie di scampo al di là dei mari.
Poco prima di leggere Ghosh, mi sono imbattuta nella visione di Aniara, regia di Pella Kågerman e Hugo Lilja, film di fantascienza filosofica, a bassissimo budget, oscuro e disperante. L’umanità ha distrutto definitivamente il pianeta e si organizzano navette spaziali per il trasferimento sulle colonie di Marte. Una di queste navi-città, dopo qualche tempo dalla partenza, perde la sua rotta. L’equipaggio viene aggiornato sulla situazione fino a quando non diventa chiaro, ma non dichiarato, che la navicella è destinata a vagare all’infinito, nell’infinito.
Unica consolazione dell’equipaggio è poter ricorrere, tramite un dispositivo che si connette al cervello, a immagini artificiali di natura ormai perduta sulla Terra. Queste immagini iniziano a subire interferenze, si sovrappongono quelle della fuga da un pianeta in fiamme. Senza nemmeno più uno spazio incontaminato nella mente, le persone non riescono a trovare pace, iniziano a impazzire. La popolarità del capitano precipita, per mantenere l’ordine, a bordo si ricrea un sistema fortemente autoritario e patriarcale, del tutto simile a quello che ha portato alla devastazione del pianeta Terra.
Per tutta la durata del film una sensazione di claustrofobia si faceva terribile e presente, in modi mai visti prima, credo di non averne consigliato la visione a nessuno.
Scopro successivamente che il film è tratto da un poema epico fantascientifico scritto dal premio Nobel svedese Harry Martinson. Poeta proletario, viaggiò in tutto il mondo per poi tornare in Svezia, dove vagabondò senza un lavoro stabile per lungo tempo. Scrisse romanzi, saggi e poesie, sulla natura, sulla vita da marinaio, sulla durezza della campagna e su un fantomatico viaggio spaziale, Aniara, che in greco significa, appunto, “Disperazione”. Era solo il 1956.
Harry Martinson muore a Stoccolma nel 1978, dopo aver descritto un mondo destinato all’autodistruzione. (Nello stesso paese, quarant’anni dopo, un’ambientalista di nome Greta Thunberg finisce sotto i riflettori e per la prima volta in Occidente, un movimento di massa per la giustizia climatica irrompe nel panorama politico.)
Se nel poema originale si trattava forse di conseguenze di una guerra atomica, nella versione cinematografica, le cause della distruzione del pianeta nel film Aniara sono sottintese, occultate, affiorano sotto forma di frame mentali che sfuggono al controllo degli ormai abitanti di Aniara. Si tende sempre a parlare del “post” apocalisse, raramente del prima e mai del “durante”. Anche in questa storia, anche in un film così spietato, è comunque più sostenibile saltare il punto di non ritorno.
Dopo anni perduto nel buio, l’equipaggio residuo nella nave spaziale perde la vista. La cecità torna a essere espediente per raccontare di cosa siamo capaci e incapaci, e l’assenza di speranza. Come ne La grande cecità di Amitav Ghosh, in mancanza di visione, non intesa in senso fisico, ma metaforico, come ottusità e resistenza al cambiamento, siamo destinati a ripetere all’infinito, nell’infinito, gli stessi errori, a ottenere come risultato sempre e soltanto devastazione, a riprodurre disperazione.
Cosa potremmo fare, cosa potrebbe cambiare se invece sapessimo dare ascolto alle visioni tanto precoci non solo degli scienziati, ma anche dei poeti?