Lorusso Editore

Senegal, migrare o restare? Una generazione al bivio

di Patrizia Fiocchetti

L’articolo è frutto di un viaggio fatto dall’autrice con i volontari della Onlus Energia per i Diritti Umani dal 23 ottobre al 3 novembre 2019 in concomitanza con la tappa senegalese della seconda Marcia Mondiale per la Pace e la Non Violenza ideata dall’associazione spagnola Mundo sin Guerra y sin Violencia, a cui la Onlus italiana aderisce sin dalla sua prima edizione.

Villaggio di Sossop (Senegal) – Tutte le foto nell’articolo sono di Patrizia Fiocchetti

Senegal

L’Africa scorre dentro, nel profondo. L’Africa ha suoni, colori, odori che fissano le emozioni sinuosamente, sommessamente privi di violenza emotiva. Cattura senza che ce se ne renda conto: non è casa ma origine di ogni cosa.
Queste le emozioni maturatemi dentro nei giorni di fine ottobre, trascorsi a girare per le città e i villaggi del Senegal insieme ai responsabili e volontari della Onlus di Roma Energia per i diritti Umani che da anni opera nel paese soprattutto nell’ambito dell’istruzione e formazione dei giovani.
Il Senegal vive le contraddizioni dei paesi in via di sviluppo: la presenza francese ed europea interessata allo sfruttamento delle risorse minerarie e non solo, la Cina che investe in importanti opere d’infrastruttura, come l’autostrada e la ferrovia che collegherà Dakar all’aeroporto, e in cambio entra nel sistema economico e finanziario del paese, l’ingombrante influenza dei paesi del Golfo e dell’Arabia Saudita che con i petroldollari finanziano la costruzione di nuove moschee il cui compito è espandere la dottrina salafita.
Sceneggiatura di un film già visto ad altre latitudini. Ma come ho imparato, ogni popolo trova il proprio modo di opporsi a un destino da altri determinato, e in Senegal sono i giovani, più istruiti dei loro genitori, a mettersi in gioco per la realizzazione di un modello di vita in cui la persona con le proprie aspettative sia al centro.
Il Senegal, libero da conflitti e in cui la convivenza pacifica tra etnie e religioni differenti costituisce un’eccezione nel continente, è però anch’esso colpito dal virus dell’emigrazione che lo indebolisce con la perdita di eccellenze e forze giovani. Nel miraggio di un futuro di ricchezza che raramente si traduce in realtà.

Chi torna sconfitto è traditore di un sogno collettivo

Il giornalista Ndiago Diallo

«Certo, l’influenza della Francia sul nostro governo è ancora molto forte. Basti pensare che l’attuale presidente Macky Sall, si regge su una coalizione formata dal suo partito Alleanza per la Repubblica con il partito socialdemocratico e quello nazionalista filofrancese. Ma tanti altri paesi stranieri stanno sviluppando interessi in Senegal».
Al tavolo della colazione in un hotel di Saint Louis, città decadente che conserva il fascino dell’architettura coloniale lasciata in eredità dai francesi, sono con il giornalista freelance Ndiaga Diallo, uno degli organizzatori della tappa senegalese della seconda Marcia mondiale per la pace e la non violenza partita il 2 ottobre 2019 da Madrid dove terminerà l’8 marzo 2020 dopo aver attraversato tutti i continenti.
«Dalla terrazza avrai visto le piroghe allineate lungo le rive del Grand Canal» ci voltiamo a guardare il placido e gonfio fiume Senegal che attraversa Saint Louis, le affusolate imbarcazioni giacciono in secca una accanto all’altra. «Non escono più a pescare poiché il governo senegalese ha stretto accordi con la Cina e alcuni paesi europei per lo sfruttamento del nostro patrimonio ittico. Sono i loro pescherecci a solcare i nostri mari. In cambio, soprattutto la Cina, ci costruiscono le infrastrutture».
Questo provoca disagio e povertà. «La disoccupazione è alta in un paese dove l’economia familiare si regge sull’agricoltura. I giovani, soprattutto i maschi eletti a capo famiglia, magari anche con un buon livello di formazione scolastica, lasciano il paese per cercare di realizzare un sogno di benessere che non è solo il loro ma di tutto il clan di appartenenza che investe economicamente nel progetto di partenza».

Il Grand Canal di Saint Louis

Ma molti non ce la fanno. «Il fallimento è vissuto come un vero e proprio tradimento, soprattutto dalla parte maschile della famiglia. Chi torna sconfitto, molto spesso si nasconde alla propria famiglia e comunità. Molti cadano in profondo stato depressivo: le cliniche psichiatriche degli ospedali di Dakar o Thies o di altre città, sono piene di giovani a cui viene diagnosticato un disturbo post traumatico da stress. Sono soli oppure accompagnati dall’unica figura che gli rimane accanto, la madre. Per gli altri, il padre, i fratelli sono come morti».
Problemi di tossicodipendenza? «A differenza di paesi quali il Gambia dove l’uso della droga tra i giovani è molto diffuso, in Senegal non è un problema rilevante. La questione che rimane aperta è il recupero dei migranti di ritorno alla società».

Condizioni per restare

«Si cresce con il mito dell’Europa che nell’immaginario si dipinge come terra straordinaria. I film ti rimandano tale immagine, così come i turisti bianchi che arrivano qua e hanno soldi da spendere. Noi che viviamo nella povertà pensiamo che lì in Europa siano tutti ricchi». A parlare è Thierno referente di Energia per i Diritti Umani dei progetti sviluppati nel villaggio natio di NdiaNdiane, nella regione di Thies, quali gli orti e le adozioni a distanza.

Villaggio di Ndiadiane

Siamo seduti intorno a un tavolo per discutere di emigrazione, cause, conseguenze e soluzioni, sotto un patio in muratura sferzato da vento caldo e sabbia. Accanto a noi, altri tavoli in cui si parlerà di altre tematiche quali la non violenza, l’ambiente, l’istruzione e i matrimoni precoci.
«Come organizzatore della marcia mondiale per la pace e la non violenza qui a NdiaNdiane, ho pensato interessante inserire nel forum di discussione il tema dell’emigrazione che risulta un fronte caldo in Senegal come d’altronde in Italia» continua Thierno. «Nei villaggi che vivono essenzialmente di agricoltura, sono poche le prospettive per i giovani che si spostano prima nei paesi confinanti come la Costa d’Avorio o il Gabon, o più lontano in Marocco. Ma poi tentano il salto, la traversata del mare. Viviamo un nuovo colonialismo, l’Europa non smette di sfruttare le risorse che

Un momento del forum a Ndiadiane

appartengono ai senegalesi».
«Si fa di tutto, le cose più folli per procurarsi i soldi e riuscire a partire. Senza sapere cosa ti attende veramente» interviene Omar giovane referente dei progetti a Pekine, enorme città sviluppatasi alla periferia della capitale Dakar. «Nessuno sa veramente cosa accade a chi è partito verso l’Italia o la Francia, le condizioni in cui si è costretti a vivere mentre si cerca un lavoro».
Il punto non è, quindi partire, ma trovare le motivazioni per restare. «Il mio pensiero: è necessario creare le condizioni in Senegal perché i giovani rimangano» Aida è una ragazza di 23 anni di NdiaNdiane studente di biologia. È stata la prima del villaggio a essere adottata a distanza dalla Onlus italiana. «Innanzitutto sarebbe utile far conoscere ciò che realmente accade nei paesi di arrivo, le difficoltà enormi che si incontrano, nonché le tante sconfitte. Poi occorrono azioni dal basso, iniziative per lo sviluppo locale a cui i giovani si avvicinino per esempio nel campo dell’agricoltura».
«Sì, ma innanzitutto dobbiamo cambiare mentalità, prospettiva rispetto ai nostri padri. Un approccio moderno alle pratiche del lavoro» sottolinea Thierno serio. «Da qui i giovani se ne vanno senza avere neanche provato a costruirsi una vita, a sperimentare soluzioni buone per loro ma anche per il Senegal. Non voglio rimanere seduto ad aspettare che qualcuno, gli stati europei ad esempio trovino una soluzione per noi…».
Si avvicina un ragazzo alto, viene dal tavolo accanto dove hanno appena finito di discutere sulle tematiche dell’ambiente. «Mi presento, sono Elaj Diouf. Non sono completamente d’accordo con quello che dici Thierno. Noi dobbiamo fare pressione sul governo perché si faccia carico dello sviluppo reale del territorio. Non possiamo impedire alle persone di emigrare, ma se i politici senegalesi non cambieranno il loro approccio allo sviluppo del paese e, d’altra parte, le politiche dei paesi europei rimarranno quelle degli ultimi anni, vedo complicato che possano esserci soluzioni concrete alla emigrazione».
«Questa discussione è stata comunque un primo momento di confronto sul tema tra noi e i nostri amici italiani Elaj. Dobbiamo lavorare su idee e proposte da presentare al governo. L’iniziativa la dobbiamo prendere noi, i comitati, dal basso» ribatte Thierno.
La discussione continua a gruppetti, in francese, inglese stentato e wolof, il principale idioma senegalese. Dobbiamo chiudere il tavolo tematico poiché il pranzo e quindi

Villaggio di Sossop

lo spettacolo di danza tradizionale ci aspetta.
Dal Senegal, mi raccontano, fuggono soprattutto uomini giovani, una spinta dal sud verso il nord che poi porta a valicare il mar Mediterraneo per giungere sulle coste italiane. Il flusso migratorio femminile è insignificante, perché è l’uomo che ha sulle spalle la responsabilità del benessere della propria famiglia, la donna si muove in ricongiungimento familiare, la sua partenza significa che chi è partito ce l’ha fatta.
Sono istruiti, in Senegal il livello educativo è alto ma studiare costa, finite le superiori l’accesso al mondo lavorativo è difficile: ci si iscrive ai centri per l’impiego, ma è raro che si venga chiamati per un lavoro. Si guarda gli universitari che riescono a ottenere una borsa di studio in un paese europeo e si considerano i fortunati. Oppure si prendono come riferimento i connazionali che sono partiti e che tornano per le vacanze estive a far visita alla famiglia a cui costruiranno una bella casa e compreranno una bella auto. Sono considerati ricchi e portati ad esempio nella comunità. Nessuno di loro racconta la disumanità del viaggio, di chi non ce l’ha fatta, del terrore in mare. Né della vita di stenti che per molti anni si è costretti a fare né quale sia la reale condizione dei paesi europei in cui si vive. Solo l’immagine perfetta di un emigrante di successo, il più raro.
«Eppure sarebbe utile raccontare e far sapere», mi dice Omar, un maliano che sta partecipando alla marcia. «Almeno per dare più elementi su cui decidere. Noi africani siamo un popolo di migranti, per storia e cultura. Partiamo giovani perché sappiamo che dovremo poi tornare a prendere in mano le redini della nostra famiglia».
Fa una pausa. «Sa, i morti non ci fanno paura. Se non hai niente non vieni rispettato e quindi è meglio partire».

 

 

Senegal, migrare o restare? Una generazione al bivio