Lorusso Editore

di Patrizia Fiocchetti (di ritorno da una missione in Bosnia, svoltasi dal 12 al 14 ottobre scorsi, organizzata dalla Coop Noncello di Pordenone)

I giovani poliziotti bosniaci fermano tre migranti che camminano per le strade del centro di Bihac, una cittadina di poco più di 60 mila abitanti che dal gennaio scorso affronta fuori dai riflettori mediatici un flusso costante e ininterrotto di donne, uomini e bambini in movimento verso l’Europa.
Si sorridono, la scena non rimanda tensione. Parlano a gesti e poi i due in divisa blu si allontanano verso la strada principale mentre i tre uomini avvolti da coperte a difendersi dall’umidità tornano sui loro passi lungo fiume, verso il campo che li accoglie a poche centinaia di metri da lì.
Il nord della Bosnia e i cantoni che si trovano a ridosso del confine con la Croazia, da gennaio 2018 sono entrati a far parte di diritto della rotta seguita dai profughi nel loro viaggio verso un futuro dignitoso. Bihac, Cazin, Veluka Kladusa sono i punti di raccolta in cui si fermano per lanciarsi poi in The game, il gioco, come viene chiamato con tragica ironia ormai da anni: trovare il passaggio fortunato attraverso cui gettarsi salvandosi dai manganelli della polizia di Zagabria e proseguire verso una nuova stazione del cammino. Grecia, Macedonia, poi la Serbia. Oggi la Bosnia, con costanza, senza resa.

Il tombale silenzio del governo

«Ricordo che a gennaio solo piccole associazioni di volontariato si occupavano di portare generi di conforto e prima necessità ai migranti, poche decine di uomini». Salam Midzic, segretario della Croce Rossa di Bihac, è la memoria storica degli avvenimenti di quest’ultimo anno che tanto hanno cambiato la faccia della sua città e accompagna la nostra delegazione arrivata da Pordenone verso il campo formale dove sono ospitati centinaia di profughi. Con lui, le rappresentanti della Ong Ipsia Acli che fin dall’inizio ha affiancato la Croce Rossa locale nel soccorso ai migranti, come leggiamo in questo articolo sul loro sito.
Ci inerpichiamo su una stretta salita che si snoda all’interno di una collina verde ove sono issate molte tende da campo intorno alle quali si nota viavai di giovani uomini intirizziti per la giornata uggiosa. Ci guardano senza curiosità. Ennesimo gruppo di forestieri in visita.
«Quando il numero è aumentato e siamo arrivati alle centinaia di persone, anche famiglie, le associazioni si sono arrese e si sono rivolte a noi per un intervento più organizzato e capillare. Il sindaco di Bihac ha incaricato la Croce Rossa del cantone di prendere in mano le redini dell’accoglienza. Mai avrei pensato che la situazione si sarebbe evoluta in questo modo».
All’ingresso di un’area semi-recintata ci accoglie una guardia giurata a cui vengono consegnati i moduli con le nostre generalità. «L’ha messa qui l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) che sta anche cercando di delimitare l’area dove si trova lo stabile dal resto del terreno occupato dalle tende».
Arriviamo in uno spazio aperto molto affollato, che si apre davanti a un edificio incompiuto, le mura grigie, in alcune porzioni non intonacate. È privo di porte e infissi alle finestre, da cui si intravedono volti di uomini. Da alcune pendono vestiti ad asciugare, una è chiusa da una busta di plastica nera a riparare dall’aria rigida.
«I migranti avevano già occupato questo edificio, pertanto suggerimmo al sindaco che per il momento era adatto a tamponare l’emergenza. A distanza di mesi, noi abbiamo iniziato formalmente il nostro intervento il 24 aprile scorso, si è trasformata in una situazione stabile. Per questo abbiamo chiesto sostegno alle associazioni internazionali mentre speravamo nell’intervento del governo centrale. Che non c’è stato». Non c’è rabbia nella sua voce, solo un’amara considerazione.
«Ma si parla di fondi arrivati dall’Europa al governo bosniaco. Come sono stati spesi?» gli chiedo tramite la rappresentate di Ipsia Acli Azra Handukic che fa da interprete. «Non lo so. È segreto. Ma guardatevi intorno: certo qui i soldi non sono arrivati».
Nello spazio antistante lo stabile incompiuto, sono stati posti un punto di smistamento abiti e generi sanitari; un altro gestito dall’Unhcr per la ricerca di famigliari persi durante la migrazione – intorno al quale si accalcano decine di persone; poi un posto per la medicina di primo soccorso. I volontari della Croce Rossa sono tanti, giovani, impegnati a rispondere alle richieste.
«I lavori di costruzione di questo edificio sono iniziati negli anni ’90 per ospitare la casa della gioventù» spiega Diego Shaban Saccora, veneziano esperto di Balcani, curatore del blog Lungo la rotta balcanica, che da diversi mesi è a Bihac collabora da indipendente con Ipsia Acli. «Poi nel 1992 con lo scoppio della guerra sono stati sospesi. La città ha sofferto un duro assedio, tre anni, da parte di serbi di Bosnia e musulmani di Velika Kladusa. Il più lungo dopo quello imposto a Sarajevo. Come vedete, non è stato mai ultimato».
Intorno a noi giovani uomini si muovono e ogni tanto si fermano ad ascoltare. Nella parte alta dello spiazzo l’Oim ha posizionato box docce e bagni chimici.
«La nostra cucina, allestita grazie anche all’aiuto della Croce Rossa tedesca, lavora incessantemente per preparare i tre pasti della giornata» prosegue Salman. «Attualmente, l’Oim ci finanzia un totale di 2600 pasti, che noi cuciniamo e distribuiamo tramite la nostra rete di volontari».
Indubbiamente, le attività per fornire i beni di prima necessità e il presidio medico funzionano, Ipsia Acli si occupa di fornire prodotti per l’igiene personale mentre l’assistenza sanitaria è garantita dall’ospedale della città. Rimane la questione logistica più complessa ma urgente in vista dell’inverno che in quelle zone è molto rigido. «L’Oim si sta occupando del sistema fognario e ha fatto allacciare acqua e elettricità all’edificio. Sta ora organizzando i lavori di manutenzione del tetto per poi procedere all’installazione delle finestre».
Ma non avete mai pensato a un trasferimento in strutture più adeguate? «Inizialmente era stato proposto di portare i profughi a Velika Kladusa poiché ci sono edifici ultimati oltre che più grandi, ex fabbriche soprattutto. Ma il sindaco di Kladusa non ha dato il proprio consenso e il governo si è disinteressato».
Il movimento delle persone intorno a noi è incessante, uomini per la maggior parte. «Dalle 9 alle 11 distribuiamo la colazione». C’è solo una donna, che scopro essere iraniana, con il marito, un figlio adolescente e uno di pochi anni. Sono una famiglia cristiana e per questo sono scappati. «Due anni che abbiamo lasciato il nostro paese e sette mesi che siamo qui. Passare il confine sarà difficile, con il bambino intendo». Mentalmente, mentre ci accomiatiamo faccio un ripasso di tutti quelli che ha già attraversato…
Le mamme con bambini, le donne vittime di violenza e i minori non accompagnati, che si dichiarano, sono accolti nell’ex hotel Sedra nel cantone di Cazin sempre sul confine, tra Bihac e Velika Kladusa.
«Il Sedra viene gestito dall’Oim» spiega Greta Mangiacalli giovane esponente di Ipsia Acli, venuta a Bihac per seguire un progetto sull’ambiente e ritrovatasi coinvolta nell’emergenza profughi. «Un totale di 400 posti ora quasi esauriti. I nuclei familiari continuano ad arrivare e bisognerà trovare altre soluzioni alloggiative adeguate. Alcune donne, però, preferiscono non separarsi dai propri mariti e rimangono qui».
Tramite una scala ci spostiamo sulla parte alta e giriamo intorno all’edificio. In fila indiana in quello che risulta un terreno scivoloso in mezzo all’erba sempre più rada, uomini di diverse nazionalità si spostano tra l’edificio e le tende limitrofe, poste sul terreno in discesa.
«Ci sono soprattutto pakistani, iraniani, afghani e iracheni. Siriani ancora pochi ma ne stanno arrivando. Hanno diviso in zone di ap

partenenza sia gli spazi dell’edificio che le tende». Salam si ferma davanti a un ampio tendone bianco. «Ci sono state tensioni e risse tra i vari gruppi nazionali di appartenenza. Nessun problema con gli abitanti, invece».
Mentre scendiamo alla spicciolata muovendoci tra gli alberi che disseminano la collina, passando accantoa un cartellone che mostra in diversi colori i vari percorsi per il trekking, domando se sanno quante persone ci sono attualmente tra accolti nelle tende e nell’edificio. «Circa 300 nelle tende da campo, tutti uomini. Tra gli 800 e i 1000 nello stabile. Ma, secondo noi, il numero più realistico di migranti in movimento nella zona fino al confine è di circa 6000».

Il confine circonda Bihac

Siamo tornati al parcheggio. Gruppi di profughi, sciarpa o cappuccio sulla testa e zaino in spalla, si stanno allontanando dal campo. Sono diretti al confine, oggi tenteranno la sorte. Li seguiamo con lo sguardo, alcuni chiedono conferma.
«Tutti i giorni ne partiranno tra i 100 e i 150 divisi in vari gruppi» traduce Hazra. «Alcuni di loro saranno all’ennesima volta. Ne ho visti diversi tornare feriti, li abbiamo anche curati». Nella consapevolezza che poi ci avrebbero riprovato. «Anche per questo è così difficile avere una stima esatta, fare un censimento. Molti hanno trascorso fino a due anni in Serbia, i bambini parlano la lingua».
Bihac è città di confine. Non c’è ancora il filo spinato a segnarlo, in compenso c’è l’attiva polizia croata a marcarlo con metodi aggressivi e violenti. Agisce quale cane da guardia dell’Europa, grazie ai fondi di Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea a guardia delle frontiere di mare e di terra, piovuti nelle casse della Repubblica di Croazia.
In terra di Bosnia e soprattutto in questa città si toccano le contraddizioni che dilaniano l’Europa e ciò che appare inappellabile è proprio la questione dei confini che i nostri governi sovranisti e/o codardi vogliono rendere più invalicabili dei muri reali che delimitano altri stati, vedi Israele dalla Palestina, la Turchia dal Rojava. Scaricando sulle nazioni di una regione politicamente fragile e socialmente dilaniata come i Balcani, le tensioni di una guerra combattuta per procura: quella scatenata contro profughi e richiedenti asilo.

Qui la seconda parte

Bihac, confine d’Europa