Lorusso Editore

di Patrizia Fiocchetti (di ritorno da una missione in Bosnia, svoltasi dal 12 al 14 ottobre scorsi, organizzata dalla Coop Noncello di Pordenone).
Qui la prima parte

Scrivo la seconda parte del reportage mentre si succedono notizie sulla tensione ai confini
tra Bosnia e Croazia. Dalla nostra missione di metà ottobre, la situazione si è evoluta rapidamente
prima con la manifestazione degli abitanti di Bihac contro il governo bosniaco colpevole di averli
abbandonati nella gestione dell’accoglienza di migliaia di profughi, seguita dalla marcia spontanea
di richiedenti asilo partiti dal campo di Bihac, dall’ex hotel “Sedra” dove sono ospitati donne e
bambini e dal campo di Velika Kladusa, città bosniaca a ridosso della frontiera con la Croazia.
Bloccati da un cordone di polizia pesantemente armata, gli è stato intimato di tornare indietro.

Ultima fermata: Velika Kladusa

Il campo informale di Velika Kladusa

Una spianata brulla riempita a chiazze da tende da campeggio, lontana dal centro cittadino
e nascosta alla vista. Occorre che qualcuno ti ci accompagni altrimenti giri a vuoto alla ricerca
dell’accampamento informale di Velika Kladusa, città così prossima al confine che da molti
migranti viene preferita a Bihac.
Appare improvviso l’appezzamento alla fine di un viottolo in cui il movimento di giovani
uomini è incessante, colpisce la desolazione e l’abbandono. A differenza di Bihac, qui la
municipalità in primis il sindaco non ne vogliono proprio sapere dei profughi che affluiscono e il
disinteresse è palese.
Fikret Abdic, attuale sindaco di Kladusa è un criminale di guerra. Magnate dell’Agrokomerc,
piccolo – grande impero dell’agroalimentare arrivato a dar lavoro a 13.000 persone, tra il 1992 e il
1995 ha fondato la Provincia Autonoma della Bosnia Occidentale, accordandosi sia con i croati
che con i serbi e si è reso colpevole di aver creato campi di concentramento che internarono
anche gli abitanti di Bihac. Ritornato libero nel 2012, ha vinto le amministrative del 2016.
A pochi chilometri dal centro città, a luglio scorso sono stati montati dei tendoni sul terreno
di proprietà di Agrokomerc: lì sarebbe dovuto sorgere il campo ufficiale di Velika Kladusa ma Abdic
ha negato l’autorizzazione.

La tendopoli non utilizzata di Velika Kladusa (foto di APS Lungo la rotta balcanica)

La Croce Rossa Federale provvede con un pasto giornaliero e «non tutti i giorni vengono»
dicono alcuni dei giovani uomini che incontro. Ufficialmente c’è un esponente dell’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) che vi si
reca, ma la più attiva è No Name Kitchen un’associazione spagnola che opera in loco con diversi
volontari. Medici senza frontiere anche, però non ha una postazione medica fissa.
Saranno circa 300 le persone presenti, molti di più gli invisibili che vivono nascosti nel
bosco limitrofo in situazioni ancora più precarie di quelle che ci troviamo davanti. La maggior parte
sono iraniani e pakistani. C’è anche un marocchino che parla italiano, vestito decisamente meglio
degli altri e non si capisce se dorme in una delle tende oppure ha trovato una sistemazione in città,
né cosa ci faccia lì.
In fondo sulla destra, a ridosso di una bassa vegetazione un paio di bagni chimici. «Non
andarci» mi dice uno dei ragazzi iraniani. «Sono inutilizzabili e tutto intorno liquami e odore
irrespirabile». Effettivamente, lo spazio dinanzi le due latrine non è stato occupato da nessuno.
Anche qui, nella normalità dei meccanismi umani i profughi si sono divisi in gruppi di
appartenenza nazionale. Gli iraniani, tanti giovani tra i 20 e i 30 anni e una famiglia con minori,
occupano le tende sulla parte destra. Hanno acceso un fornello e un paio di loro cucinano uova su
una padella da buttare via. La spazzatura è ai limiti del perimetro del campo. «È un problema
enorme» mi dice la donna uscendo dalla tenda più grande «vengono raramente a portarla via».
Non sono qui da molto tempo. «Anche se il comune non fa nulla la gente è gentile. Ci
vengono a portare anche i vestiti» aggiunge un altro ragazzo. «La polizia croata mi ha rimandato
indietro due giorni fa a suon di manganello». Oltre all’escoriazione sotto lo zigomo mi mostra la
profonda ecchimosi su un fianco. «Ecco cosa ti fanno. Fotografa pure se vuoi». Ma rifiuto.
Sono in viaggio chi da due chi da tre anni, e da diversi mesi in Bosnia. «Si, anche in Serbia
sono stato. Ma voglio andare in Europa. Sono un attivista politico». Aggiunge un altro, capelli
castani su un viso scavato: «Mi hanno arrestato durante una manifestazione di protesta a Teheran. I
pasdaran del regime iraniano sono disumani». Gli altri vociferano a conferma. «Io sono stato
picchiato in carcere. Sono scappato per salvarmi, pensando che l’Europa rispettasse i diritti umani.
Invece…». Scuote la testa.

Le domande che però mi rivolgono sono esemplari. «Quando riusciremo a passare? Perché
ci picchiano come se fossimo dei criminali? Non abbiamo diritti, dunque da nessuna parte nel
mondo?». Si accavallano le loro voci, richieste già sentite in altri luoghi, in Grecia nel 2016 e in
Serbia nel 2017: «Open Borders, aprite le frontiere». E mi chiedo quale sia il sentimento che li faccia
continuare ad andare avanti, se la disperazione o la speranza.
Il più giovane, forse appena maggiorenne mi fissa e poi serio mi chiede: «Ma tu che pensi,
magari a Natale sarà più facile riuscire ad attraversarlo il confine?».

Bihac ha bisogno di supporto concreto

Il sindaco di Bihac Suhreta Fazlic

«La globalizzazione ci è piombata addosso con tutto il suo peso negativo» esordisce il
sindaco di Bihac Suhreta Fazlic all’inizio dell’incontro presso la sede della municipalità domenica
mattina. «Da un anno ci confrontiamo con l’emergenza migranti senza però avere alcun tipo di
supporto concreto da parte del governo centrale. Come comune non abbiamo alcun potere politico
e l’unico aiuto ci viene da parte delle organizzazioni internazionali».
Pur se mantiene un tono controllato, traspare la stanchezza di una problematica che ha
sempre più difficoltà a contenere. «Siamo una piccola comunità che ha ancora i ricordi degli stenti
sofferti durante il lungo assedio subito negli anni ’90. Pertanto l’empatia verso queste persone
disagiate arrivate nella nostra città è stata da subito molto forte. Ora, però iniziano a esserci le
prime manifestazioni di rifiuto. Abbiamo bisogno di aiuto concreto».
La collina dove sorge l’incompiuto edificio per la gioventù era stata appena bonificata e
ristrutturata quale punto verde per la cittadinanza. Il fatto di essere occupata come rifugio dai
migranti è stato vissuto come uno shock dagli abitanti. «Vedete, la più grande differenza tra la
situazione che vivete voi in Italia e noi qui si basa sul fatto che il vostro è un paese di arrivo mentre
il nostro è di passaggio, non vogliono rimanere. Qualsiasi investimento progettuale appare
difficoltoso. Stiamo subendo dei danni al nostro patrimonio pubblico e ciò alza il livello
d’insofferenza».
Il sindaco Fazlic non nasconde la preoccupazione per ciò che potrebbe accadere.
«Dobbiamo avere un sostegno al dialogo con loro. Anche se sono musulmani la nostra cultura di
appartenenza è differente e su questo non siamo preparati. Vogliamo aiutarli ma dobbiamo capire
come meglio farlo tenendo presente i bisogni degli abitanti. Il pensiero comune è diventato che qui
arrivano i migranti mentre i soldi dell’Unione Europea entrano nelle casse del governo a Sarajevo.
Per non parlare delle piccole comunità rurali sul percorso da qui al confine, anche queste hanno
bisogno di sostegno in tempi brevi».
L’urgenza nelle parole del sindaco che pur illustrando ciò che la sua città sta affrontando
non ha mai utilizzato il termine “sicurezza”, richiama l’attenzione dei nostri sguardi e delle nostre
coscienze su una realtà alle porte dell’Italia che finora si è evoluta in un eccesso d’indifferenza,
anche da parte degli addetti ai lavori o delle varie ong e associazioni che si battono a favore dei
diritti di profughi e richiedenti asilo contro le derive sovraniste della fortezza Europa.
Attenti a seguire la tragedia nel Mediterraneo molto più sotto i riflettori di vari livelli di
narrazione, abbiamo lasciato che nei Balcani si venissero a creare sacche coercitive per gli esseri
umani. Paesi sedotti dai soldi dell’Unione Europea – ultima in ordine di tempo l’Albania, creano sui
loro territori tanti campi dove cercare di trattenere le persone che tendono all’Europa. Cosa
accadrà?
Lascio Bihac, la Bosnia piena di domande, di sensazioni contraddittorie e con la fastidiosa
sensazione che di tempo ce ne sia rimasto poco.

Bihac, confine d’Europa (seconda parte)